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Categoria: Cinema
Creato Martedì, 01 Ottobre 2013

L’intrepido, recensione di Luca Baroncini (n°161)

di Gianni Amelio

con Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Sandra Ceccarelli

Gianni Amelio (a sinistra) e Antonio Albanese (Foto Luca Baroncini)Si dice che il cinema italiano contemporaneo non riesca a intercettare il presente, e una volta che un regista ci prova viene fischiato. Il problema del film di Gianni Amelio, presentato in Concorso al Festival di Venezia, è che parte con il piede giusto, collocando una maschera tragicomica nella Milano attuale, lontana dai grandi eventi e immersa in una quotidianità faticosa, ma poi ne disperde le potenzialità.

Il protagonista Antonio Pane, un inguaribile ottimista, si arrabatta come può, lavorando come rimpiazzo per qualunque tipo di impiego. Lo vediamo all’inizio in un cantiere, poi alla guida di un tram, alle prese con la macchina da cucire, in una stireria, al mercato del pesce. Nulla sembra spaventarlo se non l’inattività, il non avere un senso, il sentirsi inutili. Una metafora del precariato all’ennesima potenza. Questa bellissima idea, cui Antonio Albanese presta il suo carisma e la sua misura, viene purtroppo sprecata in un racconto minato da continue didascalie. I personaggi che affiancano il protagonista, infatti, sono gravati dal peso dell’etichetta. Ci sono la ragazza depressa e malinconica, il figlio complice ma infelice, la moglie che si è messa insieme a un losco faccendiere. Ogni incontro rappresenta una caduta nel greve che purtroppo non si carica di significato ma affossa il film nel patetismo, attraverso dialoghi, spesso improbabili, tesi a spiegare un disagio piuttosto che a elaborarlo. Succede così che le ottime premesse si disperdano in siparietti dove le ragioni dei personaggi non esplodono, ma inciampano nella scorciatoia di un sentimentalismo ricattatorio. Il punto più basso in tal senso è l’incontro con la ex-moglie, a cena con il nuovo compagno, nel ristorante dove Antonio Pane vende le rose ai tavoli. Così come risulta stridente l’ingenuità con cui il protagonista si affida per lungo tempo a un truce affarista, salvo prenderne le distanze maturando improvvisa consapevolezza attraverso un episodio di pedofilia buttato un po’ lì.

Nonostante le lodevoli intenzioni, quindi, il film non trova un equilibrio tra il tono favolistico e la crudezza della realtà. E Antonio Pane, che porta su di sé il peso di un presente inaccettabile, finisce per diventare personaggio più simbolico che credibile.

 

 

 

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