Io capitano, recensione di Luca Baroncini (n°266)
di Matteo Garrone
con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi
Matteo Garrone racconta il fenomeno migratorio da un punto di vista originale: non dalla parte di chi accoglie, come siamo soliti vedere, ma da quella di chi è accolto. E non focalizzandosi sul momento dell’arrivo in terra straniera, ma approfondendo tutta la fase precedente, partendo quindi dalla decisione di lasciare la propria terra (nel caso specifico la capitale del Senegal, Dakar) per cercare fortuna in Italia che si pensa sia un paese migliore, con grandi opportunità.
Garrone evita le trappole politiche, quindi i fucili puntati di destra e sinistra nei confronti dei valori veicolati, non si interessa degli sbarchi, men che meno delle reazioni pro o contro di chi accoglie, e non sceglie protagonisti in fuga da un paese in guerra, ma fa ugualmente un film fortemente politico dando spazio a uno strazio via via crescente che obbliga (in modo inevitabilmente ricattatorio, certo) a prendere posizione. Quella che il regista romano costruisce è una vera e propria via crucis sulla criminale tratta migratoria dall’Africa all’Occidente, girata con grande senso dello spettacolo (ma non estetizzante), in cui a emergere è l’umanità dello sguardo. Il suo è un cinema empatico a cui è gradualmente impossibile sottrarsi.
Il maggior pregio dell’opera, ma può essere letto anche come difetto, è quello di essere diretto, semplice, con due protagonisti strepitosi che danno vita a un percorso classico, fiabesco (se non si conoscesse il contesto si direbbe da film di avventura), con poche e belle digressioni oniriche e una costante ispirazione che si traduce in misura e rispetto per ciò che racconta. Il limite, che non inficia lo spessore del progetto pur ammorbidendolo, è invece quello di costruire premesse un po’ manipolatrici, con due protagonisti bellissimi e dal candore inscalfibile, un folclore locale ben coreografato e rassicurante e un percorso tutto sommato con poche sfumature, in cui ragioni e torti non pongono dubbi, sovrastati come sono dalla drammaticità della contingenza.
Una scelta di campo, anche astuta perché il rischio di impelagarsi nella retorica quando si parla di migrazione è altissimo, che punta dritto alla pancia. E pungolare il pubblico senza cercare polemica, predica e dibattito, pur con le ombre di una scarsa problematicità, diventa un punto di forza del film.