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Categoria: Letture
Creato Martedì, 01 Novembre 2016

Cavalli -Foto di Mario RebeschiniPrimetto Brandi, di Rino Ermini (n°195)

Primetto Brandi quando partì per andare a fare il militare di leva era normale e quando tornò era grullo. Questo lo diceva lui. A noi, a dir la verità, quando tornò a casa dopo il congedo ci sembrava più o meno come prima, semmai un po’ rincoglionito, ma né più né meno come erano tutti quelli che tornavano da fare il militare e che rimanevano ancora per qualche mese con un’aria un po’ beota, ma poi piano piano si rimettevano e tornavano normali. La sua tesi era precisa e netta: se mi avete preso a fare il soldato vuol dire che ero normale, e se ora sono grullo siete voi che mi avete rovinato, quindi dovete pagare. Io non so come andò.

Non so se le commissioni giudicanti erano allora più blande o se effettivamente gli riscontrarono qualche rotella fuori posto, sta di fatto che la pensione gliela dettero. Prendeva poco, è vero, ma a lui bastava e campò da quel momento in poi senza fare un accidente.

Era fissato con i cavalli e non so come riuscì a comprarsene uno. Lo teneva in una stalla mezza diroccata che stava su fra i campi in collina e che un contadino gli aveva dato a usare in cambio di niente. Aveva anche una Cinquecento piuttosto scassata che gli serviva per due cose soltanto: spostarsi da casa sua alla stalla (abitava più in giù, ai piedi delle colline, in una frazione di alcune decine di case) e per fare scorta di fieno, una balla alla volta, per il cavallo. La scorta la faceva durante l’estate. Quando passava lungo i campi e vedeva le balle di fieno (non quelle grosse circolari che fanno ora che sembrano pesare due o tre quintali, ma quelle di un tempo, parallelepipedi di un metro per 0.30 per 0.50, del peso di un venti o trenta chili, quelle che da noi si chiamavamo presse e non balle) si fermava, scendeva di macchina e ne prendeva una, la posava sul portabagagli e la portava alla stalla. Un fattore che ho conosciuto personalmente l’ho sentito raccontare che Primetto Brandi gli rubò una pressa in sua presenza e quando gli disse se questo gli sembrava il modo, quello ebbe a rispondergli che se non era il modo che gli dicesse lui quale era quello giusto per campare il cavallo. Questo fattore disse che era rimasto senza parole, mentre l’altro caricava in macchina la pressa e se ne andava.

Era anche fissato col Palio di Siena. Non se ne perdeva uno, tutti gli anni quello di luglio e quello dell’As-sunta. Si portava in Campo alle dieci di mattina per essere sicuro di potersi appollaiare sulla colonnina in pietra proprio davanti al mossiere, in prima fila. Se vi guardate filmati del Palio di qualche decennio fa, lo vedrete. Biondino, smilzo, con due denti davanti un po’ in fuori. Del Palio sapeva tutto. E insisteva soprattutto a spiegarci che un buon fantino è uno che è pronto a prenderle di quelle dure dai suoi contradaioli non quando perde, ma quando sbaglia qualche cosa. Si aveva la netta impressione che ci parlasse insistentemente del Palio per farci intendere che avevamo di fronte il fantino migliore, e vai a capire perché da Siena nessuna contrada venisse a pregarlo in ginocchio di andare a correre sotto le sue insegne.

È necessario dire a questo punto perché noi avevamo modo di ascoltarlo abbastanza spesso. Frequentavamo una delle numerose case del popolo della zona, quella situata nel nostro quartiere, ma quando nelle discussioni politiche con i più anziani superavamo i limiti del rispetto (secondo loro, e spesso anche secondo noi) e quelli ci mandavano di brutto a quel paese, noi per qualche giorno facevamo gli offesi e cambiavamo circolo. Così capitava anche che qualche sera si andasse in quello della frazione di Primetto ed era impossibile evitare che ci agganciasse, e fra un bicchiere di vinsanto o uno di Chianti non ci tenesse in ballo tutta la sera a raccontarci del Palio, dei cavalli e di altre storie.

Un’altra questione che era oggetto delle sue concioni riguardava le banche e le rapine. A quel tempo, un tempo per molti aspetti di maggiore civiltà rispetto ad oggi, le banche qualche volta venivano ancora rapinate. Non come oggi che fra tecnologia all’avanguar-dia, informatica e diavolerie varie le banche per fortuna non si rapinano più. Sono loro che rapinano noi. Ma non era di questo che Primetto parlava perché certe cose non poteva ancora saperle. Forse ne parla oggi perché di sicuro starà ancora lì sui colli come un tempo a rubar fieno (come non so, visto il peso e le dimensioni delle balle di oggi), o a raccontarle, le balle. Insomma, per venire al sodo, diceva che rapinare una banca non era un reato, ma un atto meritorio perché dava impulso all’e-conomia. Diceva che il denaro per fruttare deve girare, non deve stare fermo. Questo era scritto in tutti i manuali di economia. Che lui non aveva assolutamente letto, ma lo sapeva. E se uno faceva una rapina mica il denaro lo metteva poi sotto un mattone. Lo spendeva. E il denaro, alla maniera di un evaso, dopo un rapido giro tornava dentro, tornava in banca. Non erano i carabinieri ad acciuffarlo, ma i negozianti, i quali invece di ammanettarlo lo ammazzettavano e lo consegnavano agli sportelli. Ecco come si dava impulso all’economia. Io non vedo più Primetto Brandi da molti anni, ma ho quasi la convinzione che lui oggi spieghi la crisi col fatto che non si fanno più rapine e il denaro per questo giri molto meno di un tempo.

Per concludere, un aneddoto che ho ben presente, non per averlo vissuto, ma perché ce la raccontò uno di noi che in quel tempo, neolaureato in attesa di trovare un posto più confacente, lavorava come avventizio in una fattoria. I suoi compagni lo chiamavano “professore”, un po’ sul serio e un po’ per prenderlo in giro, perché da quelle parti la gente è molto seria, ma non ce la fa a non prendere in giro. In un giorno d’estate e di caldo rovente stavano lui e gli altri braccianti nelle vigne a “rimettere le viti”, a fare cioè la cosiddetta potatura verde o come si chiami adesso, insomma quell’operazione di tirar via i tralci inutili e sistemare quelli buoni ben ravviati sul filare per consentire al-l’uva di maturare meglio e ai trattori il passaggio per la ramatura senza difficoltà e senza far danno. Oggi i sistemi sono altri e per risparmiare manodopera si fa una cosa un po’ diversa, troppo lunga da spiegare. Chi vuole può andare a vedere una vigna a luglio o agosto (una vigna ben tenuta, si intende) e se ne renderà conto da sé. Erano fra i filari a lavorare quando videro Primetto scendere lungo uno di essi sul proprio cavallo. Giunto fra loro si fermò e stando sempre in sella appoggiato comodamente con le braccia sul pomo, si mise a fare conversazione. Lo conoscevano tutti e non era la prima volta che accadeva. Mano a mano che gli operai procedevano, lui spronava leggermente il cavallo che smetteva di piluccare l’erba fra i filari e si spostava di qualche metro. A un certo punto il discorso entrò in cose serie: il lavoro, la fatica, e tutte quelle cose lì. E lui non per ridere ma proprio sul serio disse ai suoi interlocutori che erano proprio dei bischeri a star lì a sudare sotto quel sole mentre il padrone se ne stava chissà dove a godersi la vita. Fra i braccianti, erano una decina, c’erano anche due don-ne. Una delle due si chiamava Olga, una cinquantenne ossuta e bruciata dal sole che aveva una lingua, come dicevano i suoi com-pagni, “non che tagliava e cuciva, ma da stabilimento tessile”. Gli disse così: “Caro Primetto, te hai torto a dirci certe cose, perché noi non siamo bischeri, ma bischeri due volte, una perché ci facciamo sfruttare dal padrone e una perché lavoriamo anche per pagarti la pensione, a te che non fai nulla dalla mattina alla sera. Dico bene professore?” concluse rivolgendosi al neolaureato che, quando gli pareva il caso, lo tiravano in ballo per avere qualificato appoggio alle loro tesi. Chia-mato in causa, “il professore” non poteva offendere Olga che altrimenti gliela avrebbe fatta pagare, né Primetto, peraltro già irrigidito alle parole della don-na. Così, non essendo il tipo che sapesse rispondere con una battuta e alleggerire la situazione, si lanciò in una perorazione pro Primetto dicendo che era uno di noi, uno del popolo, e lavorare anche per lui doveva essere un onore, non un peso. Era del padrone che bisognava preoccuparsi, era da lui che veniva il male, era lui il nemico.

Qualche sera dopo il fatto, al circolo, Primetto Brandi per tutto il tempo che rimanemmo lì tenne affettuosamente il braccio intorno al collo del professore. Lì per lì pensammo che fosse nata una qualche storia fra loro e rimanemmo molto turbati, anche perché erano sì i tempi del libero amore, ma di quello etero, non di quello omo. Ci tranquillizzammo solo quando il professore spiegò tutto, con Primetto che annuiva e confermava riconoscente e soddisfatto.

 

 

 

 

 

 

 

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