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Categoria: Letture
Creato Lunedì, 06 Giugno 2016

Murillo - Gesù del buon pastoreUn sogno, di Rino Ermini (n°191)

Stavo camminando lungo un sentiero perso in boschi di querce nell’alta val Tiberina. Chiara e fredda giornata d’inverno, senza vento, solo la luce a tratti sembra muoversi fra i rami e sul crinale dei poggi. Di rumori niente, a parte quello leggero degli scarponi sulla terra fredda, e quello dei pensieri anch’essi leggeri. Vedo all’improvviso fra i cespugli poco avanti a me, prima uno poi un altro maiale che pasturano grufolando nello strato di foglie. Mi sembra strano. Qui mi aspetterei il cinghiale. Di certo ci sarà vicino una casa di contadini dove allevano maiali all’aperto e liberi. Dopo un po’ ne vedo altri tre, più grossi, e un verro e una scrofa. Animali belli.

Il bosco comincia a lasciare il posto a vasti campi in pendenza che avvolgono i colli, campi seminati a grano e foraggi, di colore tenue, verde chiaro. Infine la casa, in pietra, con logge e capanne, macchine e attrezzi disposti ordinati intorno, una vasca d’acqua, un cane alla catena che mi guarda attento, ma non abbaia. Nessuna voce. Proseguo il mio cammino. 

Ai margini di un campo, sotto una quercia enorme, mi fermo per mangiare e riposare. Metto un grosso sasso ai piedi dell’albero, mi siedo e appoggio la schiena al tronco, in faccia al sole. Al mattino ho comprato in una bottega un filone di pane di un chilo, un’aringa “con le uova”, e una bottiglia di vino rosso di una fattoria che sta da queste parti ma non la conosco. Cavo il coltello di tasca, affetto il pane e taglio l’aringa. La bottiglia me l’ero fatta aprire alla bottega. Bevo a canna. Accendo un fuocherello, per avere compagnia. E anche per arrostire l’aringa. Mangio piano, con gli occhi e la mente che si perdono intorno e lontano. Alto vola un falco, abbandonato alle correnti.

Quando ho finito, prima di lasciarlo solo, aggiusto il fuocherello perché finisca di bruciare senza fare danno. Sbuca alle mie spalle senza che mi fossi accorto del suo arrivo e in assoluto silenzio un ragazzino. Avrà sette od otto anni. Si fa vicino al fuoco, si sbottona i pantaloni e ci piscia sopra. Rimango di stucco. “Ehi, porca miseria, ti sembrano questi i modi?”. “Volevo solo darti una mano. Non ti ricordi più di quand’eri come me e di come spegnevi il fuoco nelle sere d’inverno, quando dai boschi ti muovevi con le pecore per tornare a casa?” Doppiamente scioccato, non ho parole. Prima che io riesca a riaprir bocca, si abbottona i pantaloni, gira le spalle e se ne va.  

Vado per la mia strada. Che altro fare? Dopo una mezzora sono a un borgo di mezza montagna. Entro fra le case.  Anche queste di pietra e pochi mattoni. C’è qualcuno per i vicoli, qualche uomo e qualche donna, affaccendati in cose che non so. Questa gente ha sempre qualche cosa da fare. Con calma, a volte malinconica, mai di corsa, a volte una voce, una parola scambiata fra due che si incontrano. Un cane mi si avvicina tranquillo, mi annusa, mi fa un po’ di festa. Un paio di gatti ho visto, fermi, pelo rigonfio come a difendersi dal freddo, quasi addormentati. Gatti che hanno mangiato e dormicchiano, in attesa che si apra l’uscio giusto per andare a mettersi nel canto del fuoco o che si faccia buio per girare nei misteri della notte. 

Mi viene incontro uno che conosco. Vestito da signore: giacca e cappotto eleganti, cravatta, cappello a larghe tese come usava un tempo. Baffi spioventi, un po’ strabico. È un poeta. Non un poeta famoso, ma un poeta. Qualche libro l’ha pubblicato. E io l’ho letto. Non è male. So che  vive giocando a biliardo, cioè col biliardo si guadagna la vita. Non so come faccia. Non mi è ancora giunto a due metri che mi si rivolge con aria accigliata, la sua aria normale: “E te? Che ci fai qua? M’avevi detto che m’avresti mandato quel libretto che hai scritto, ma non l’ho ancora visto. Allora? Che fai? Prometti e non mantieni?”  “Hai ragione, ma vuole il caso che n’abbia un paio di copie”. Tiro giù lo zaino e lo apro. “Te le do tutte e due, caso mai tu volessi regalarne una”. “Sai, mi risponde, di recente ne ho pubblicato un altro anch’io, se lo vuoi salgo in casa a prendertelo”. “Certo che lo voglio”. E lo accompagno per un centinaio di metri. Mentre lui sale, lo aspetto seduto all’uscio. Torna giù dopo un po’, mi dà il libro, lo sfoglio velocemente per una prima occhiata. “Te lo do volentieri, dice, perché una volta m’hai detto che le mie poesie ti piacciono”. “Non proprio tutte, devo dire la verità, ma molte son belle e di valore. E te, come te la passi?” “Come vuoi che me la passi? Te ne ricordi dei tempi in cui volevamo fare la rivoluzione? Dio quanto ci sto male a volte per la mancanza di quell’età, e quanto penso che eravamo ingenui”. “Senti un po’ me. Questa cosa me la dici ogni volta che ti incontro. E io ogni volta ti rispondo che di quel che ho fatto non mi pento nemmeno delle virgole. Io posso anche capirti. Che cosa credi? Che io ci stia bene? Ma dovresti ficcarti in testa che abbiamo fatto bene, che così dovevamo fare, che eravamo in gamba perdio e siamo stati grandi. Che abbiamo vissuto come bisognava vivere. E anche ora. È come se avessimo fatto una rivoluzione. Guarda: basterebbero anche le tue poesie, o il mio libretto, o come io cammino (o come tu giochi a biliardo, ce lo vogliamo mettere anche questo?). Siamo diversi, abbiamo alle spalle una bella storia, una storia che ha lasciato il segno, che per rivoli sotterranei e nemmeno poi tanto sotterranei continua. Detto fra noi, non abbiamo sbagliato nulla”. Mi ha allungato la mano e gliela ho stretta. Non è di molte parole. 

Di nuovo via. Fino ad una pozza un po’ fuori dal borgo, dove ci sono i lavatoi, che ora non si adoperano più, ma sono rimasti. Una pozza con l’acqua verde e trasparente. Bellissima. Dei pesci vi nuotano. Due anziani stanno seduti su una panchina di sasso ai suoi bordi. Guardano l’acqua, i campi e le montagne verso il tramonto e parlano. Li ho salutati. Poi anch’io mi sono messo a guardare la pozza e le montagne. Ascoltandoli in silenzio: i vecchi, la pozza e le montagne. Da lì in poi avevo da fare solo una decina di chilometri su una stretta strada fra campi e pochi boschi che mi avrebbe portato dove avevo lasciato la macchina. Non avevo nessuna fretta. Ho aspettato che diventasse buio, che apparissero le prime stelle, e si facesse più freddo.