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Categoria: Ambiente
Creato Sabato, 06 Febbraio 2021

VolpeLe Georgiche: i boschi, di Rino Ermini  (n°240)

È inevitabile che nelle Georgiche, trattando il Poeta di campagne, campi e bestiame, vi sia una diffusa presenza dei boschi, dell’acqua e del vento, accennati a volte brevemente, quasi di sfuggita, altre invece in ampi passaggi.  Di questi tre aspetti della natura e del mondo contadino dove vivevo un tempo, voglio parlare negli ultimi tre interventi dedicati alle Georgiche, cominciando dai boschi.

 “Poma quoque, ut primum truncos sensere valentis / et viris habuere suas, ad sidera raptim / vi propria nituntur opisque haut indiga nostrae. / Nec minus interea fetu nemus omne gravescit, / sanguineisque inculta rubent aviaria bacis; / tondentur cytisi, taedas silva alta ministrat, / pascunturque ignes nocturni et lumina fundunt. / Et dubitant homines serere atque impendere curam? / Quid maiora sequar? Salices humilisque genistae / aut illae pecori frondem aut pastoribus umbram / sufficiunt saepemque satis et pabula melli. / Et iuvat undantem buxo spectare Cytorum / Naryciaeque picis lucos, iuvat arva videre / non rastris, hominum non ulli obnoxia curae. / Ipsae Caucasio steriles in vertice silvae, / quas animosi Euri adsidue franguntque feruntque, / dant alios aliae fetus, dant utile lignum / navigiis pinos domibus cedrumque cupressosque; / hinc radios trivere rotis, hinc tympana plaustris / agricolae et pandas ratibus posuere carinas. / Viminibus salices fecundae, frondibus ulmi; / at myrtus validis hastilibus et bona bello / cornus; Ityraeos taxi torquentur in arcus. / Nec tiliae leves aut torno rasile buxum / non formam accipiunt ferroque cavantur acuto. / Nec non et torrentem undam levis innatat alnus / missa Pado, nec non et apes examina condunt / corticibusque cavis vitiosaeque ilicis alvo.” 

Libro II, vv. 426-453

“Anche gli alberi da frutto, appena sentono forti i tronchi, / ed hanno proprie energie, si levano rapidi alle stelle / fidando in sé, non più bisognosi del nostro aiuto. / Non meno di loro frattanto i boschi si caricano di prodotti, / e i nidi rosseggiano incolti di bacche sanguigne; / si tagliano i cìtisi, l’alta selva fornisce torce, / e si alimentano i fuochi notturni e spargono lume. / E come gli uomini esitano ancora a seminare e curare le piante? / Perché diffondermi in altri consigli? I salici e le umili /ginestre offrono fronde all’armento, ombra ai pastori, / siepe ai seminati e buon nutrimento per il miele. / Piace mirare il Citoro ondeggiante di bossi / e boschi di picee naricie, piace vedere campi / non soggetti a rastrelli né ad alcuna coltura dell’uomo. / Le stesse sterili selve in cima al Caucaso, / che le raffiche degli Euri assiduamente schiantano e trascinano, / dànno ciascuna prodotti diversi; dànno il pino, / legno utile ai navigli, cedro e cipressi alle case; / gli agricoltori ne piallano raggi per le ruote, dischi per i carri; / ne fanno anche ricurve carene alle navi. / Fecondi di vimini i salici, gli olmi di fronde, / il mirto di valide aste, il corniolo adatto alla guerra; / i rami del tasso s’incurvano in archi iturei. / Ed anche i lisci tigli e il bosso docile al tornio / ricevono forma e si scavano con aguzzo ferro. / L’ontano nuota leggero immesso nella fervida onda, / del Po, e le api spesso celano i loro sciami / nelle cave corteccie e nel seno di un elce cariato.”

Una parte dei terreni di pertinenza del podere di cui ho parlato negli articoli precedenti era tenuta a bosco. Non per una scelta fatta secoli addietro da chi questo podere lo creò disboscando e dissodando, e intesa a lasciare una parte dei terreni boscati per gli utilizzi di legnatico, quanto perché si trattava di terreni irriducibili all’arativo, nemmeno coi terrazzamenti, a causa della pendenza eccessiva. Erano infatti (e sono ancora) i pendii dei “borri”, cioè di quelle profonde incisioni scavate nel corso di milioni di anni da ruscelli e torrenti in un altipiano che fu il fondo di un lago pliocenico scomparso.

Dai boschi noi prelevavamo la legna per integrare quella derivante dalle potature e necessaria per cucinare e riscaldare la casa in inverno. Chi abitava invece nei poderi con terreni adagiati interamente sull’altipiano, perciò pianeggianti e completamente arabili, doveva farsi bastare quella delle potature o comprarla dai boscaioli. 

Dai boschi veniva pure fogliame (soprattutto di cascia, cioè di robinia) usato come foraggio in estate quando era buona norma non adoperare il fieno, destinato all’inverno, ed erba verde, data la calura, non ce n’era. Infine dal bosco veniva il legname necessario a fare i pali per le viti, i manici di zappe, vanghe e scuri, l’aratro, i cesti e le granate; e anche fasci di ginestre e scope per scaldare i forni quando il pane si faceva in casa.

Nel bosco e nelle sue radure pascolavano le pecore. Le radure erano spesso originate da terreni marginali disboscati e messi a grano per le politiche autarchiche durante il fascismo, politiche che avevano indotto i contadini ad allargare la terra coltivabile su terreni poi lavorati solo a vanga e zappa perché col bestiame e l’aratro era impossibile andarci causa pendenza eccessiva e assenza di strade. Questi terreni, peraltro pesantemente soggetti a smottamenti, furono velocemente abbandonati dopo la Seconda Guerra Mondiale per divenire appunto pascolo da pecore. Sparite le pecore, e anche i contadini nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, tornarono a bosco, del resto come l’intero podere quando, come accadde  al  nostro,  i mezzadri emigrarono in città a fare gli operai e non fu più possibile trovarne altri.

Nei boschi ci si andava anche a caccia. Non si sparava in genere in giro per i campi. I pallini che colpissero olivi e viti non erano graditi, e con uno che fosse stato trovato a cacciare nei coltivi c’era anche il caso che si attaccasse a litigare. Per quanto riguarda gli animali, non c’erano cinghiali né lupi che oggi invece sono tornati in abbondanza. Io dico per fortuna, se penso ai lupi; e che son troppi, se penso ai cinghiali. Ma così è. C’era qualche volpe, rare perché siccome facevano la ronda ai pollai, se il contadino riusciva ad avvistarne una difficile che l’animale avesse vita lunga. Chi uccideva una volpe aveva il diritto di portarla appesa a un palo in giro per i poderi per far la raccolta di uova e qualche spicciolo. Io mi ricordo però che erano ormai solo i ragazzi a fare questa cosa perchè per  gli adulti non sarebbe più stato dignitoso in tempi in cui il mangiare e una lira in tasca non mancavano più a nessuno. C’erano anche lepri e fagiani, anch’essi rari perché quasi in ogni famiglia c’era un cacciatore ed erano tempi in cui se vedevi una lepre ti davi da fare per metterla nel tegame, non c’erano ancora discorsi ecologisti o animalisti.

Parlando di boschi, da noi era impossibile non parlare di funghi, per la precisione del porcino, parola che era sinonimo di “fungo”. Andavamo a cercarli, quand’era stagione, su in montagna, perché i boschi del nostro podere non erano molto adatti, anche se fra settembre e ottobre qualcuno se ne trovava. Erano più frequenti invece specie di minor pregio, ad esempio bubboli, vescie, famigliole e pinarini.

Qua è là c’erano “bollate” (termine che indica area non molto estesa di una specie in mezzo ad area più vasta con prevalenza di una specie diversa) di castagno selvatico, insomma quel castagno che dà regolarmente frutto, commestibile quando non c’è di meglio. La pianta la adoperavamo, se giovane di ceppaia, per fare sbrocchi, matterelli e pali, ma i frutti li lasciavamo volentieri a pecore e scoiattoli. Ce lo potevamo permettere perché avevamo una decina di piante di marroni secolari da cui si ricavava abbastanza frutto da fare per tutto l’inverno le brici (dette in italiano bruciate o caldarroste), le succiole (ballotte) e le tigliate (marroni sbollentati per pochi minuti, poi sbucciati e rimessi al fuoco fino a cottura completa e semisbriciolamento; quel che rimaneva in pentola lo si scolava dell’acqua di cottura e si mangiava, in genere freddo, magari per strada andando a scuola, avendone prima fatto una palla farinosa ben pressata). Di marroni se ne poteva regalare una manciata a chi non ne aveva, ma non si vendevano, e pochi ne vedeva anche il padrone.

Se dovessi esprimere un mio pensiero sui boschi, direi semplicemente che per me erano (e sono), insieme ai campi, il paradiso. Ne conoscevo ogni anfratto e si può dire quasi ogni pianta. C’ero sempre dentro, fosse per lavoro o per semplice vagare senza scopo. Erano il mio ambiente, non mi sfuggiva niente di quel che vi accadeva, della loro vita. Avevo la sensazione netta di seguire addirittura la crescita di ogni pianta anno per anno, e la certezza di avere nei confronti del bosco un posto preciso: ne ero parte, ci vivevo come un suo elemento, ci stavano gli animali e le piante e ci stavo io. Ci sono questi versi di una canzone di Francesco Guccini che si adattano alla perfezione al mio sentire. “uomo di bosco e di fiume, lavoro e di povertà/ ma uomo sereno di dentro come i pesci e gli uccelli/ che con me dividevano il cielo, l’acqua e la libertà/ …/ io che guardavo la vita con calmo coraggio,/ cosa darei per guardare gli odori della mia montagna,/ vedere le foglie del cerro gli intrichi del faggio,/ scoprire di nuovo dal riccio il miracolo della castagna.” 

La canzone, s’intitola “Il caduto”, è per me bellissima e commovente, e racconta di un contadino di montagna che è morto in Russia e là è rimasto sepolto per sempre. Io, per mia fortuna, nei boschi ci sono ancora dentro, e ancora non ho finito di stupirmi in autunno degli intrichi del faggio, delle foglie dei cerri e di quelle degli aceri, e del miracolo della castagna. E ancora sono vivi e acuti il mio disprezzo e il mio sdegno verso coloro che a quel contadino dei monti boscati di Pàvana stroncarono la vita. E non sto parlando della neve russa o dei soldati e dei partigiani sovietici, ma del fascismo e del capitalismo.