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Categoria: Storia e personaggi
Creato Giovedì, 01 Marzo 2007

Bologna 1977: che cosa accadde? Che cosa resta? (n°89)

Dopo Marx, aprile,di Toni Iero

È tutta una questione di cronologia. E di geografia. Il 1977 non è stato un post ’68.

 Non a Bologna. È stato, piuttosto, un anticipo. Una sorta di aperitivo fuori programma, indicativo però di quale sarebbe stato il menù che ci avrebbero servito qualche anno dopo.

Perché il ’77 a Bologna? Cosa c’era che non andava nella città vetrina del Pci? Certo non la disoccupazione. Bologna era già allora una delle aree più ricche dell’Italia. Il problema della casa? Riguardava frange molto marginali della popolazione. Emarginazione? Suvvia, non scherziamo. Il Pilastro, il quartiere simbolo del ghetto cittadino di allora, era comunque un gioiello rispetto alle borgate romane o ai quartieri dormitori della cintura milanese. I fascisti? Difficili anche da incontrare: a tenerli "compressi" ci pensava il servizio d’ordine del partito comunista. Insomma, era difficile trovare situazioni più gravi della media nazionale in quel contesto storico bolognese, incompiuto tentativo di una improbabile socialdemocrazia stalinista.

Ecco perché il ’77 bolognese nacque nell’università e, fondamentalmente, con poche eccezioni, lì dentro rimase fino alla sua fine. Il fulcro di questo movimento furono gli studenti fuori sede. Infatti, la maggior parte dei residenti bolognesi non viveva drammatiche contraddizioni in grado di generare una "rivolta intellettuale" come quella settantasettina. L’estraneità, in qualche caso anche la contrapposizione, tra studenti e cittadini felsinei derivò proprio da questa incomprensione di fondo, oltre che dal ruolo di repressione sociale svolto dal Pci e dalle sue articolazioni (Cgil, Anpi, istituzioni locali, LegaCoop, etc.)

Nel rileggere le tematiche sollevate allora dal movimento ne emerge un quadro di sconcertante attualità.

Il soggetto sociale al centro del dibattito erano i cosiddetti "non garantiti". Figure caratterizzate dalla giovane età e dalla mancanza delle certezze sociali tipiche delle precedenti generazioni. Allora sembrava una pura invenzione intellettuale, oggi è la dura realtà di migliaia di giovani precari! Persone costrette a lavori marginali e saltuari, con bassi salari e privi di quelle sicurezze che permettono la partecipazione attiva alla vita sociale (stabilità del posto di lavoro, diritto alla casa, assistenza sanitaria efficace, copertura previdenziale, etc.).

Le stesse forme espressive utilizzate dal movimento come il trasversalismo e la duplicazione del significato delle parole (vi ricordate "I Lama stanno nel Perù …"?) le abbiamo ritrovate nei decenni successivi in televisione, nella pubblicità e, da qualche anno, in internet.

Lo sberleffo riservato ai cosiddetti "mili/tonti" si legge adesso nella fine dei partiti di massa e nella crisi di identità del partito – chiesa per eccellenza: il Pci – Pds – Ds. Tipico dei giovani del movimento bolognese era poi una sorta di atteggiamento di disimpegno dalla "Politika". Pochi ed episodici i volantinaggi la mattina presto davanti alle fabbriche e contatti sporadici e conflittuali con le tradizionali organizzazioni della sinistra. Alle riunioni nelle sedi politiche si preferiva il vagabondaggio da un’osteria all’altra, alla ricerca della compagnia gradita. Anche i momenti più militanti, assemblee e manifestazioni, erano vissuti come occasioni per incontrarsi e conoscere persone. Sì, naturalmente, la rivoluzione era bella e ci piaceva, esattamente come le compagne del collettivo di facoltà … insomma, si aveva il buon senso di non prendersi troppo sul serio. Traccia di questa mentalità la riscontriamo anche nel fatto che non ci furono leader settantasettini, al contrario di quanto avvenne nove anni prima. E, sempre a differenza del ’68, il movimento e la quasi totalità delle persone che ne hanno fatto parte non si sono integrate all’interno dei partiti e delle istituzioni. La conseguenza, sotto gli occhi di tutti, è che alla politica italiana manca la generazione (e la sua fantasia) che ha vissuto quell’irripetibile stagione.

Anche lo scontro con il Pci anticipò i tempi. Tale partito fece di tutto (con successo) per farsi considerare un avversario ottuso e arrogante, non un interlocutore con il quale discutere, sia pur animatamente. Dal lato del movimento non vi era alcuna forma di subalternità nei confronti dello storico partito della classe operaia. Diversamente dagli anni precedenti, non c’era l’ambizione / speranza di convincere i militanti comunisti a essere qualcosa di diverso da quello che, purtroppo, erano. Che se ne andassero per la loro strada e, soprattutto, che ci lasciassero andare per la nostra. Consapevoli del fatto che ormai fossero due percorsi divergenti. È suggestivo notare come, proprio a partire dal ’77, per il Pci cominciò una costante emorragia di voti giovanili. Infatti, da allora ebbe un peso maggiore al Senato che non alla Camera, come invece era sempre successo in precedenza. Era la fine dello stalinismo, che si sarebbe esplicitata solo dodici anni dopo con la caduta del muro di Berlino e, successivamente, con l’ammaina bandiera della falce e martello dalle cupole del Cremlino. Nel dicembre del 1991 i cittadini russi cominciarono a sputare in faccia ai funzionari del Pcus che incontravano per strada: componente genetica di quella saliva era l’innocente carica corrosiva del ’77 bolognese.

Infine arrivò l’omicidio di Francesco Lorusso. Un’azione sproporzionata, del tutto ingiustificata dalla situazione. Quel giorno non stava succedendo nulla. Dopo accadde di tutto.

Il movimento del ’77 a Bologna finisce l’11 marzo. Poco più di un esile mese di vita. A partire dall’omicidio di Lorusso si entrerà in una sterile spirale di repressione e lotte contro la repressione. A chiudere definitivamente la stagione dei movimenti penseranno, un anno dopo, le Brigate Rosse che, con il rapimento di Aldo Moro, portarono lo scontro a un livello tale da non lasciare più spazio a nessuno che non fosse folle (e ben finanziato) come loro.

All’università di Bologna, in quel lontano febbraio di trenta anni fa, non fu il passato a dare un ultimo sussulto, bensì il futuro a fare capolino per vedere con chi avrebbe giocato negli anni a venire. Non ce ne accorgemmo. Non era facile intuire che il paradosso spazio – temporale del ’77 bolognese sarebbe stato quello di aver le radici negli anni successivi e non in quelli precedenti.

Cosa resta di quell’esperienza? La memoria di alcune migliaia di persone. Le sconcertanti commemorazioni di chi, come i comunisti italiani, era stato il principale nemico di quel movimento. Qualche dotto convegno di professori universitari. Ma il vero lascito del ’77 bolognese è un altro e, ovviamente, è Altrove … Si tratta di qualcosa di terrificante, sconvolgente e, nello stesso tempo, sublime e inafferrabile. Qualcosa che non si lascia ingabbiare dalle tassonomie accademiche e istituzionali: un concreto ed irriverente niente!

Bologna 1977: un altro punto di vista di Luciano Nicolini

E’ curioso constatare come due coetanei che hanno vissuto lo stesso movimento, e che hanno (e avevano, all’epoca) un identico retroterra ideologico, lo possano giudicare diversamente. A mio parere il 1977, soprattutto a Bologna, fu un post ’68, anzi, l’ultimo sussulto del formidabile movimento iniziato con il beat, esploso nel 1968 con la contestazione giovanile e divenuto culturalmente egemone nel corso della prima metà degli anni ’70.

Certo, nel 1977, a differenza dagli anni precedenti, il soggetto sociale al centro del dibattito era costituito dai cosiddetti "non garantiti", una figura sociale che diventerà sempre più diffusa negli anni successivi. Certo, lo sberleffo riservato nel ‘77 ai cosiddetti "mili/tonti" dei partiti di massa (Pci in testa), solo accennato negli anni della "contestazione", prefigurava quello che diverrà universale negli anni ‘90. E, a differenza dal ’68, la quasi totalità delle persone che hanno fatto parte del movimento del ’77 non si sono integrate all’interno dei partiti e delle istituzioni. Ma tutto ciò si spiega facilmente, se pensiamo a chi furono i protagonisti di quelle stagioni di lotta.

Chi furono, infatti, i principali protagonisti del ’68? Soprattutto studenti (prevalentemente maschi) che, nella maggior parte dei casi, fino a quel momento, avevano studiato (seriamente) all’interno dell’orrida scuola di classe così ben descritta da don Milani, avevano giocato a pallone, avevano goliardicamente sperato di "conquistare una figa", riuscendoci in genere solo con le prostitute, o con qualche ragazza di estrazione proletaria speranzosa di acchiappare uno studente; insieme a loro si erano mobilitati anche giovani operai che fino a quel momento si erano dedicati (seriamente) all’odioso apprendistato, avevano fatto il servizio militare (imparare a sparare può sempre servire), avevano chi "gliela dava" (ma, in genere, assai sbrigativamente) ed erano approdati, da poco, a una catena di montaggio (furono, quelli, gli anni in cui la grande industria richiese la massima quantità di manodopera non specializzata).

Ovvio che, passata la festa, si siano, in genere, rapidamente integrati. Gli studenti, mettendo a profitto i loro studi; gli operai più intraprendenti, utilizzando le capacità politiche acquisite e la forza del movimento per diventare dirigenti nei partiti, nei sindacati, nella pubblica amministrazione, dove spesso li troviamo, tuttora, in posizioni di rilievo.

E chi furono, invece, i principali protagonisti del ’77? Soprattutto studenti (maschi, ma anche molte ragazze) che, nella maggior parte dei casi, avevano trascorso l’adolescenza a discutere su come cambiare il mondo, e avevano girato l’Europa in autostop, sperimentando strane forme di sopravvivenza e facendo l’amore liberamente; insieme ad essi si mobilitarono anche giovani operai non molto diversi da loro, per i quali fare il servizio militare era assolutamente inconcepibile (quanti esoneri, in quegli anni!) e il lavoro di fabbrica era solo un modo per portare a casa un salario e dedicarsi, appena possibile, alle stesse cose cui si dedicavano i coetanei studenti. Persone più difficilmente integrabili all’interno del sistema.

Racconterò un aneddoto, che mi pare valga più di ogni analisi teorica. Nel ’77 un gruppo di compagni del movimento si incontrò a discutere con un gruppo di delegati operai di area Cgil. Ovviamente non riuscirono ad accordarsi su nulla e, alla fine della riunione, i compagni del movimento proposero di proseguire il dibattito il giorno successivo: sabato pomeriggio.

"Vedete – disse loro un delegato di area Cgil – la differenza tra voi e noialtri è che noi, al sabato pomeriggio, andiamo a figa!"

Naturalmente, voleva essere solo una battuta, tesa a ridicolizzare la mania di discutere a oltranza diffusa tra i compagni del movimento, e a richiamarli a una maggior concretezza. Tuttavia, inconsapevolmente, il delegato aveva colto nel segno. Sì, perchè i compagni non "andavano a figa" al sabato pomeriggio, "facevano l’amore" con le compagne quando (soprattutto quest’ultime) lo desideravano.

In altre parole, in molti casi, erano assai più "sessantottini" dei "sessantottini", perchè, per loro, la contestazione, non era stata un "momento di passaggio" ma un "periodo di formazione", il che è molto, ma molto, diverso. Tutta la loro adolescenza era stata vissuta in previsione di un radicale cambiamento politico, sociale e culturale (il che, tra l’altro, spiega perchè, anche di fronte all’evidenza che tale cambiamento non era, in quel contesto, possibile, provarono ad attuarlo lo stesso, proprio come il prete Liprando della canzone di Dario Fo ed Enzo Jannacci).

In questo senso il ’77 è stato, a mio parere, davvero, l’ultimo sussulto del formidabile movimento iniziato con il beat, esploso nel 1968 con la contestazione giovanile e divenuto culturalmente egemone nel corso della prima metà degli anni ’70.

Cosa resta di quell’esperienza? Ben poco: la diffusione delle idee femministe, cominciata già negli anni precedenti ma resa inarrestabile dal ’77; la constatazione che, per creare una mentalità diversa da quella modellata dal sistema, non basta un breve movimento di contestazione, ma occorre un lungo periodo di formazione; l’amarezza che, in quegli anni, tale formazione sia stata portata avanti comunque in modo piuttosto superficiale ed abbia coinvolto un numero di persone del tutto insufficiente per trasformare radicalmente la società.