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Categoria: Scuola e università
Creato Domenica, 11 Febbraio 2018

debitiI debiti e i crediti, di Rino Ermini (n°209)

Per lungo tempo nella storia della scuola pubblica parole come azienda, debiti, crediti e mercato sono state sconosciute o quasi, a meno che non si trattasse di scuole dove era previsto l’insegnamento dell’economia. Negli ultimi decenni invece sono diventate le più usate. 

Ciò sta a significare che la scuola ha subito una mutazione profonda, che la si è trasformata in azienda; e fra tante altre oscenità gli studenti e le studentesse sono diventati clienti, in particolare quando sono in procinto di iscriversi, e prodotti, quando escono dal ciclo di studi: se escono con un diploma con votazione elevata sono un buon prodotto, se la votazione è scadente sono un prodotto così così. Se hanno abbandonato in itinere sono scarti di produzione. 

A fianco di una simile logica, esiste naturalmente anche un bilancio in euro nel quale le entrate sono costituite dalle tasse scolastiche pagate dai clienti, o dai loro contributi “volontari”, o dai contributi statali (sempre più esigui), o dai contributi di eventuali sponsor o “benefattori”. Entrate che vengono amministrate normalmente non con l’idea di un buon funzionamento, ma con quella del profitto. Ci sono scuole che si provano anche a far produrre dagli studenti nei laboratori cose vendibili, fino ad un tale livello di ridicolo che mi è capitato di sentire dirigenti invitare i propri docenti a fare laboratori di cucina per poi provare a vendere torte. Un livello di ridicolo forse raggiunto e superato soltanto da quegli uffici postali che accanto alla raccomandata e al bollettino di conto corrente, si mettevano a vendere ricettari di cucina e libri di giochi per bambini per far vedere quanto fossero solerti nel credere nell’autonomia e nel mercato. Ho usato l’imperfetto perché non so se di tali aberrazioni ve ne siano ancora.

A proposito del mutamento del linguaggio, è bene chiarire che esso non è venuto da una qualche parte non identificata. È venuto dai ministeri e dai provveditorati, dai presidi di allora, e non poco dai sindacalisti dei sindacati ufficiali e dai “formatori” degli IRRSAE (per chi se li ricorda). E non era quel fenomeno una prerogativa solo della destra: presidi e docenti iscritti alla Cgil furono a suo tempo i più solerti, volonterosi ed entusiasti nell’introdurre l’uso di parole come “manager” o “dirigente” o  termini in inglese atti a evidenziare la nuova modernità fatta di azienda e di mercato.

Un aspetto eclatante, direi nodale, della questione del mutamento intervenuto nella scuola, sono i debiti e i crediti, sia per quanto attiene alla terminologia sia per i contenuti che vi stanno dietro. Il debito si ha quando uno studente non è a fine anno scolastico sufficientemente preparato, e il giudizio circa la bocciatura o la promozione viene sospeso e rinviato all’inizio del successivo anno scolastico. Si presume quindi che lo studente in questione studi durante l’estate e faccia anche dei corsi istituiti dalla sua scuola allo scopo di poter saldare il debito. Ma non è questa la stessa procedura di quando si era “rimandati a settembre”? Perché allora questo cambiamento di linguaggio se non per la volontà di sostituire nell’immaginario una espressione o una parola con altre che dessero subito l’idea di mercato e azienda? Certo, di nuovo rispetto a un tempo c’è l’istituzione di corsi di recupero a giugno per i “rimandati”, ma questo rientra nella volontà di far lavorare di più i docenti: non c’è altra motivazione; e vista anche l’aleatorietà di detti corsi sarebbe ben più logico e proficuo abbandonarli per una diversa e migliore didattica nel corso dell’anno. È opinione poi di molti docenti che sarebbe necessario eliminare non solo la modalità dei corsi di recupero, ma anche l’aberrazione dei debiti e dei crediti, senza batter ciglio. A giugno, o promossi o bocciati. Punto. E se ci si mettesse nell’ottica di azzerare anche le bocciature (e gli abbandoni) sarebbe ancora meglio. Ma qui il discorso si fa più difficile e complesso, e non sarà certo il “potere” a prendere provvedimenti in tal senso, a meno che non vi sia costretto.

I crediti sono dei numeri che scaturiscono dalla media dei voti, secondo un meccanismo stabilito dalla normativa. Possono essere anche certificazioni di attività di volontariato o altro, fatte sia dentro la scuola che all’esterno. Anche qui non sarebbe male tornare a un semplice giudizio analitico, almeno nella scuola dell’obbligo, ed eliminare i voti (e le suddette certificazioni che anch’esse a volte rasentano il ridicolo). E se proprio dei voti non possiamo farne a meno, mantenerli soltanto nella scuola non obbligatoria quindi, stante l’attuale situazione in fatto di obbligo, soltanto al triennio delle superiori. È però anche questo un discorso che necessiterebbe di essere rivisto sull’onda di movimenti e lotte che partissero da studenti, insegnanti e famiglie. Non possiamo aspettarcelo da chi ha costruito negli ultimi decenni una scuola burocratica e farraginosa col solo obiettivo di premiare le gerarchie, il falso merito e ridurre un “servizio” ad “azienda” come scusante al taglio devastante dei fondi statali e dei diritti di lavoratori ed utenti.

Bisognerebbe insomma tornare indietro o, per dir meglio, andare avanti cambiando direzione e proseguire su un’altra strada rispetto a quella orribile e devastante della scuola-azienda.    Tornare  a   una scuola che funzionasse con i soldi dello Stato stanziati secondo le reali necessità, uno Stato inteso qui come collettività che paga le tasse, e dove quelle tasse alla società tornassero sotto forma di servizio ben funzionante. Un servizio ben funzionante dovrebbe voler dire un servizio che preparasse le giovani e i giovani anche per l’inserimento nel mondo del lavoro, certo, ma soprattutto per l’inserimento nella vita, per dar loro gli strumenti adatti ad essere adulti critici, solidali, consapevoli dei propri diritti oltre che, eventualmente, dei propri doveri. Strumenti poi efficaci per arricchire nel corso dell’intera esistenza la propria cultura. Insomma una scuola non al servizio del padrone e del mercato, ma del proprio buon funzionamento nei confronti di una società diversa. Tornare indietro quindi nei fatti, nella sostanza, e anche nelle parole. Perché se le parole sono, come sono, importanti, non si potrà nel modo più assoluto avere a che fare nella scuola con termini quali mercato e profitto o debiti e crediti, se lo scopo deve essere quello di crescere individui consapevoli e portatori di una cultura critica; una cultura critica prevalentemente umanistica volta “a creare le condizioni individuali e collettive che diano contenuto e senso all’esistenza, piuttosto che convertire la stessa in uno strumento per produrre sempre più denaro, accumulare capitale e arricchirsi” (Luciano Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, 2012).