Stampa
Categoria: Scuola e università
Creato Giovedì, 01 Ottobre 2009

A proposito di fondazioni universitarie, di Luciano Nicolini (n°117)

Un articolo pubblicato alla fine dello scorso anno sulla rivista “Libertaria” ha innescato un interessante dibattito sulla trasformazione delle università statali in fondazioni.

«Nella progettata riforma dell’università – è scritto nell’editoriale di Libertaria (anno 10, n. 3-4, 2008) - occhieggia la possibilità di creare fondazioni. Queste potrebbero affiancarsi o sostituirsi allo stato nella gestione e nel finanziamento delle accademie. La sinistra istituzionale e quella da poco (e a mala voglia) ritornata a essere extraparlamentare gridano allo scandalo perché così si apre la strada alla grande industria, ai potentati economici e finanziari per farsi le loro università a immagine e somiglianza, per sfornare manager, studiosi e scienziati da inserire nel loro business. Tutto vero. Chi può negare che questo sia l’intento di un “governo d’affari” come quello guidato da Silvio Berlusconi? Senza dimenticare che anche quelli di sinistra erano solo meno plateali nel perseguire i propri business.

Però questa cosa delle fondazioni per gestire le università non è da buttare via. Anzi. Tanto che c’è già qualcuno che vi intravede una buona occasione e comincia a ipotizzare fondazioni universitarie ad azionariato diffuso. Genitori, persone che hanno a cuore i problemi dell’istruzione fino ad arrivare agli stessi studenti detentori di quote della fondazione. Qui si apre un filone di riflessione e di intervento molto importante: l’università non gestita dallo stato clientelare, non gestita dalla grande impresa, ma in cui decidono le persone. Che diventano soggetti e non più oggetti.

Ne riparleremo».

L’articolo, uscito mentre era in corso una mobilitazione (il movimento dell’Onda) che aveva tra i suoi obiettivi proprio quello di impedire la trasformazione delle università in fondazioni, ha destato un certo scalpore. E infatti, sul numero successivo della rivista (anno 11, n. 1-2, 2009), sono comparsi ben quattro interventi in merito: due decisamente contrari (Persio Tincani e Salvo Vaccaro) e due moderatamente favorevoli alla trasformazione (Giulio D’Errico & Martino Iniziato e Aldo Giannuli).

 

I motivi della contrarietà sono stati ben sintetizzati da Persio Tincani:

«1) Chiunque, indipendentemente dalla riforma Gelmini, avrebbe già potuto costituire università private con capitale ad azionariato diffuso. Tuttavia, questo non è mai stato fatto, e non si capisce per quale motivo, per effetto della riforma, ciò invece adesso accadrebbe. Al contrario, numerose sono le università aperte in Italia con i consistenti capitali privati di grandi banche, di grandi industrie, oltre a quelle fondate con i capitali della chiesa. La riforma, del resto, non è intervenuta su questo punto, perciò, chi volesse fondare un ateneo con capitale ad azionariato diffuso potrebbe farlo anche subito, senza alcuna necessità di trasformare atenei già esistenti.

2) Che l’azionariato sia “diffuso” o “ristretto”, nulla cambia rispetto al controllo che il proprietario può esercitare sui programmi di studio e sugli oggetti della ricerca. Un azionariato “diffuso” di bigotti pretenderebbe (e con tutto il diritto, dato che i contratti di lavoro sarebbero disciplinati dal diritto privato) di insegnare nei corsi di biologia la creazione divina o il cosiddetto “disegno intelligente”, ed espungerebbe dai corsi di giurisprudenza il positivismo giuridico in favore di un giusnaturalismo confessionale. Se l’università è privata, nessuno avrebbe argomenti per obiettare. Del resto, le università private italiane, come la Cattolica di Milano, già adesso hanno il diritto di rimuovere docenti che, a insindacabile giudizio degli organi accademici interni, insegnano dottrine in contrasto con il messaggio cristiano (…)

3) Gestire un istituto scolastico costa moltissimo, ma gestire un istituto universitario costa ancor di più, specialmente se abbisogna di laboratori idonei a compiere ricerche e sperimentazioni. Una fondazione di diritto privato in grado di sopportare gli alti costi di una ricerca qualificata, detto con i piedi per terra, non è un’assemblea di piccoli azionisti ma una cordata di potentati economici: banche, aziende, industrie. Questa, del resto, è la comprensibile ragione per la quale nessuno ha mai ritenuto ragionevole fondare un ateneo con capitale ad azionariato diffuso, perché in quel modo si può arrivare a fondare, al massimo, una scuola materna.

4) Un’università “ad azionariato diffuso”, se mai qualcuno la fonderà, dovrebbe per forza di cose: a) decidere di essere un’università nella quale non si fa ricerca seria accettando, per esempio, di avere una biblioteca composta da due o tre scaffali e attrezzature di laboratorio prese dalla scatola del Piccolo chimico. In questo caso, dovrà anche accettare di non avere iscritti, perché nessuno dotato di un minimo di buon senso sceglierebbe di buttare via quattro o cinque anni per ottenere un titolo di studio che il mondo del lavoro considererebbe, e a ragione, carta straccia; b) decidere di fare ricerca seria e scaricare la maggior parte dei costi sulle rette di iscrizione, creando un’università riservata soltanto ai ricchi e ai ricchissimi. Un laboratorio di biologia, per fare un altro esempio, non si mette in piedi con le rette che possono permettersi di pagare trecento o quattrocento studenti benestanti».

Personalmente sono, almeno in prima approssimazione, contrario alla trasformazione delle università in fondazioni, ed è questo uno dei motivi per i quali, lo scorso anno, ho aderito con convinzione alle mobilitazioni promosse dall’Onda. Devo tuttavia osservare che:

1) Se è vero che chiunque, indipendentemente dalla riforma Gelmini, avrebbe già potuto costituire università private con capitale ad azionariato diffuso, è anche vero che trasformare l’esistente consentirebbe di disporre di un capitale iniziale (aule, biblioteche, laboratori, attrezzature) senza il quale, come afferma lo stesso Tincani, l’impresa sarebbe assai più ardua.

2) Se è vero che un azionariato diffuso non metterebbe al riparo dal rischio che gli azionisti imponessero scelte culturalmente sbagliate (anzi!), è altrettanto vero che tale pericolo è insito in qualsiasi esperimento democratico e, a maggior ragione, in qualsiasi esperimento libertario. O vogliamo sostenere che debba esistere una sorta  di aristocrazia che sola possa decidere  cosa è giusto e cosa è sbagliato insegnare?

3) Se è vero che gestire un  istituto universitario costa moltissimo, specialmente quando abbisogna di laboratori idonei a compiere ricerche e sperimentazioni, non è vero che con capitale ad azionariato diffuso si possa arrivare a fondare, al massimo, una scuola materna. Attraverso una sorta di azionariato diffuso sono state gestite cose molto complesse, come cooperative e mutue.

4) E’ vero solo in parte che un’università ad azionariato diffuso dovrebbe per forza di cose decidere di essere un’università nella quale non si fa ricerca seria, e accettare di non avere iscritti, perché nessuno sceglierebbe di buttare via  anni per ottenere un titolo di studio che il mondo del lavoro considererebbe carta straccia. Innanzitutto si può fare ricerca seria anche senza grandi mezzi finanziari, in secondo luogo non è affatto detto che il mondo del lavoro considererebbe carta straccia il titolo di studio  rilasciato. 

 

Sull’altro fronte, quello dei moderatamente favorevoli alla trasformazione in fondazioni, troviamo l’intervento di Aldo Giannuli.

«Non ci sono dubbi – scrive – sulle motivazioni scopertamente anticulturali del progetto Gelmini: un taglio brutale ai finanziamenti per avviare il disimpegno dello stato dall’università per svenderla ai privati. E’ una cosa così evidente che non vale la pena di spenderci parole. Ma, detto questo, occorre completare il quadro dicendo che la realtà universitaria attuale è semplicemente indifendibile: i profili professionali sono inesistenti, l’offerta didattica penosa, l’attività scientifica latitante, la selezione concorsuale indecente. (…)

In questo disastro nazionale, ci sono certamente le responsabilità del ceto politico (sottofinanziamento ormai quarantennale, riforme sbagliate o in ritardo, distribuzione clientelare delle risorse), nessuno lo nega, ma le responsabilità più gravi sono proprio della corporazione docente e, più in particolare, della ristretta “cupola” che ne è al vertice. Parliamo di quei 4-500 ordinari che monopolizzano i rettorati, il Consiglio universitario nazionale, i raggruppamenti concorsuali e così via che hanno usato il loro potere per una selezione nepotistica e clientelare e per una gestione delle risorse finanziarie che dovrebbe interessare di più le procure della repubblica (…).

Dipingere il tutto come il conflitto tra un governo oscurantista e il tempio immacolato della cultura è una delle più solenni e insopportabili  imposture.  In questo quadro parliamo dei tagli. Giustissima la rivendicazione di più fondi per il diritto allo studio (case dello studente, mense, magari presalario) o per potenziare le biblioteche. Andiamoci con i piedi di piombo sull’acquisto di macchinari e attrezzature varie, dove è forte il dubbio di “acquisti pelosi”. Invece nemmeno un euro per concorsi e reclutamento sino a quando non saranno riformati seriamente i meccanismi concorsuali e di governo dell’università. Dare oggi denaro a questa corporazione corrotta e irresponsabile significa solo che qualche barone li userà per assumere il quarto figlio e la terza amante e promuovere il secondo portaborse. Con il risultato di caricare l’università di altri parassiti per ulteriori venti o trent’anni.

“Ma”, qualcuno osserva, “se non facciamo reclutamento ora che quasi la metà del corpo docente va in pensione, l’università morirà”. E allora siamo chiari: che questa università di raccomandati, ladri e concubine vada in malora è solo una cosa positiva.

E qualsiasi cosa è preferibile all’esistente, anche la privatizzazione. Però non rinuncio a difendere il principio dell’università pubblica, anzi, ne voglio una che lo sia per davvero e non la sinecura del baroname.

A questo proposito, una proposta alternativa di fondazione può offrire la risposta. Penso a fondazioni nelle quali lo stato (sia attraverso l’amministrazione centrale sia gli enti locali) sia presente con una rilevante quota (il 35-40 per cento) e continui ad assicurare un cospicuo gettito annuale. Assieme a esso penso che l’altra quota rilevante (30-35 per cento) debba essere coperta con azionariato obbligatorio dei dipendenti, azionariato temporaneo degli studenti. Un’altra quota potrebbe essere assicurata da azionariato popolare: non più dello 0,1 per cento a sottoscrittore. Eventualmente un residuo 10-15 per cento potrebbe essere acquisito da banche e aziende.

Ovviamente questo implica:

1.  che i dipendenti, soprattutto i docenti, siano responsabili della propria retribuzione e, quindi, si vigilino reciprocamente prevenendo abuso e clientelismi

2. che l’università accetti realmente di misurarsi con il mercato, entrando nell’ordine di idee che una parte sensibile delle sue entrate debba provenire da ricavi su ricerche e corsi di formazione

3. che si passi da un’idea di libertà della ricerca tutta individuale a un’altra basata su progetti di gruppo stabiliti o sulla base della committenza o su valutazioni di utilità sociale stabilite dagli organi di governo dell’ateneo. Alla libera iniziativa individuale va riservato uno spazio minoritario (poniamo il 20 per cento delle risorse) sotto forma di anni sabbatici

4. che gli organi di governo dell’università non siano più organizzati secondo l’attuale schema per caste (ordinari votati da ordinari, associati da associati, studenti da studenti e così via) ma siano realmente democratici e, quindi, eletti sulla base di una testa un voto e in cui tutti siano eleggibili.

Solo una rivoluzione culturale del genere può salvare l’università italiana dal suo definitivo tracollo, dato che ho scarsa fiducia anche nelle reali capacità dell’imprenditoria privata di far qualcosa in questa direzione»

La proposta di Aldo Giannuli non mi convince,  forse perché prefigura un’università troppo distante da come la desidererei: pubblica, democratica, libertaria; forse perché, accettando la trasformazione delle università in fondazioni, apre una vistosa falla dalla quale possono entrare sempre più prepotentemente i potentati economici e finanziari.

Devo però rilevare che ha alcuni pregi:

a) è abbastanza realistica;

b) circoscrive e limita, almeno nei termini in cui è formulata, l’intervento dei privati nell’università;

c) garantisce, attraverso la riforma degli organi di governo degli atenei, una loro gestione democratica.

Dato l’attuale, sconsolante, contesto, se ne può parlare.

Aggiungi commento


Codice di sicurezza
Aggiorna

A proposito di fondazioni universitarie, di Luciano Nicolini (n°117) - Cenerentola Info
Joomla theme by hostgator coupons