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Categoria: Cinema
Creato Lunedì, 06 Giugno 2016

Valeria Bruni TedeschiCannes 2016, di Luca Baroncini (n°191)

Per gli amanti della settima arte il mese di maggio corrisponde al Festival di Cannes, la più grande manifestazione cinematografica competitiva del mondo.

Esisteva un tempo in cui Venezia rivaleggiava con la elitaria stazione balneare della Costa Azzurra quanto a splendore e qualità autoriale, ma è già da un po’ che la decadenza al Lido ha preso il sopravvento facendo perdere al festival italiano un po’ del suo scintillio e della sua autorevolezza. Sta di fatto che tutto, ma proprio tutto, il mondo del cinema si dà appuntamento in maggio in quella che è diventata la più grande vetrina di cinema globale, d’autore e non. Parallelo alle sezioni che attraversano il festival, infatti, c’è il Marché du Film, in cui i professionisti dell’industria cinematografica provano a vendere i loro prodotti. È quindi grande il fermento che si respira sulla Croisette, il viale di due chilometri sovrastato da alberghi di lusso che affianca la spiaggia di Cannes, per dieci giorni affollato da persone di ogni tipo: accreditati in corsa per le proiezioni, star in limousine dirette verso la Montée des Marches, la celebre scalinata che porta dentro al Palais per le proiezioni di gala, e curiosi di ogni età desiderosi di essere catapultati dove le cose accadono. Non semplice muoversi in mezzo a tante sollecitazioni, soprattutto capire cosa fare e co-me poterlo fare, ma fino a quando i problemi sono provare a vedere il nuovo film di Steven Spielberg (“GGG - Il grande gigante gentile”, un po’ deludente) o l’ultimo di  Pablo Larraín (l’apprezzato “Neruda”), direi che c’è da baciarsi i gomiti!

 

A valutare le opere del Concorso una Giuria di celebrità, presunte esperte del settore, miliardari in vacanza serviti e riveriti con il grato compito di consacrare autori del presente o dare il via a carriere del futuro. Passa da concorrente a giurato il giovanissimo László Nemes, l’anno scorso in gara con l’acclamato “Il figlio di Saul”, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria e poi di tutti i premi possibili fino all’Oscar come Migliore Film Straniero. Ad affiancarlo Kirsten Dunst, Valeria Golino, Vanessa Paradis, Katayoon Shanabi, Arnaud Desplechin, Mads Mikkelsen e Donald Sutherland. A guidare il gruppo   il  regista  George Miller, tornato in auge dopo il successo critico, di pubblico e di Oscar (6 le statuette conquistate quest’anno) di “Mad Max: Fury Road”, l’anno scorso Fuori Concorso proprio a Cannes.

 

Uscendo dall’occhio di bue dei riflettori, che spesso accendono l’interesse su aspetti più decorativi che sostanziali, proviamo a soffermarci un po’ su alcuni titoli in programma, coscienti del fatto che quando leggerete questo articolo saprete già chi saranno i vincitori, mentre chi vi scrive è ancora nel mezzo del piacevole guado.

 

Tra i film visti finora non si delinea ancora un fil rouge in grado di armonizzare la selezione operata, ma si riscontra una buona qualità media dei lungometraggi proposti, che anche quando non sono del tutto riusciti (pensiamo al fantasmatico “Personal Shopper” di Olivier Assayas) tendono comunque verso qualcosa di personale e non per forza omologato al gusto comune. Quello che un festival di qualità dovrebbe fare, insomma, prendendosi anche qualche rischio e, magari, pure qualche fischio. Tra i titoli che colpiscono svetta “Loving” di Jeff Nichols, che si candida a ricevere qualche premio ma soprattutto a un ruolo di rilievo nei prossimi Oscar. Il tema è già di per sé molto forte, si parla infatti di un uomo bianco e una donna nera che si amano e si sposano. “Dove sta il problema?”, starete pensando, il fatto è che siamo nel 1958 e, soprattutto, in Virginia, dove le coppie miste sono vietate per legge. Come diretta conseguenza i due vengono arrestati e condannati a cinque anni di carcere che verranno condonati solo se per venticinque anni l’uomo e la donna abbandoneranno lo stato in cui sono nati e cresciuti e dove coltivano gli affetti. La storia è tragicamente vera e il film è classico e solido, senza sbavature, ben interpretato e diretto con rigore e misura, evitando di calcare la mano su un soggetto che avrebbe offerto più di un’opportunità alle derive. 

 

Con voti della critica piuttosto bassi, e invece diretto con grande sensibilità, è “Mal de pierres” di Nicole Garcia, con Marion Cotillard papabile di premio come Migliore Attrice. Siamo sempre negli anni ’50, ma dall’altra parte del globo, in Provenza. E sempre rurale è anche il contesto in cui si muove la giovane protagonista, destinata a maritarsi o a perire, ma inquieta e in cerca di un vero grande amore che si illuderà di trovare in un tenente reduce dalla guerra in Indocina e ricoverato, come lei, in un istituto per cure termali. Sono i non detti, i palpiti del cuore, i silenzi, i rancori, le speranze, a essere al centro del racconto e Nicole Garcia costruisce un melodramma intenso, capace di scavare in modo non banale nei sentimenti, coadiuvato da una fotografia che esalta lo scorrere ineluttabile del tempo attraverso il fluire delle stagioni. 

Delude invece Ken Loach con “I, Daniel Blake”, e non perché non dica cose giuste e sacrosante, anzi, ma per l’approccio monocorde e manicheo con cui il regista britannico esplicita il suo pensiero. Il protagonista è un uomo di 59 anni costretto a chiedere un sussidio statale in seguito a una grave crisi cardiaca e la sua richiesta si perde nei meandri della burocrazia e dell’insensatezza legislativa. I contrasti impostati da Loach, però, non prevedono sfumature e sanno già dove sono ragioni e torti. I personaggi finiscono così per piegarsi alla tesi da supportare che si mangia il film. Non aiuta un impianto visivo piuttosto piatto. Troverà comunque estimatori, perché la palese ingiustizia subita dal protagonista è di quelle capaci di scaldare gli animi.

 

 E per finire due film che sono già nelle sale. Uno è “Julieta” di Pedro Almodóvar, l’altro “La pazza gioia” di Paolo Virzì. Il primo, in Concorso, è stato accolto senza entusiasmi, subito relegato tra le opere minori dell’autore spagnolo. Probabilmente non aggiunge nulla alla sua ricca filmografia, è vero, ma è anche vero che una sua opera minore contiene più spunti di tante altre pellicole in circolazione. La cosa che più affascina, come spesso accade con  Almodóvar, non è tanto ciò che il film racconta, ma il modo elegante e coinvolgente con cui lo fa. È un cinema di sensazioni quello del regista, verrebbe da toccarli quei tessuti, perdersi in quei colori, percorrerli quegli spazi, elementi che non contribuiscono solo a creare un’atmosfera ma a renderla credibile, in linea con il sentire dei personaggi. L’incedere è da thriller dei sentimenti, la costruzione alterna flashback al presente di una donna di mezza età. Qualcosa ha incrinato il suo rapporto con la figlia e il mistero pian piano si dissolve. Brave le due protagoniste, Adriana Ugarte anche bellissima. Il film di Virzì, invece, è stato presentato nella sezione collaterale Quinzaine des Réalisateurs ed è stato accolto da una vera e propria ovazione di pubblico. Il racconto verte su due donne, Beatrice e Donatella, in custodia giudiziaria presso una comunità terapeutica perché ritenute socialmente pericolose. Le due, molto diverse tra loro, una esuberante l’altra introversa, approfittando di un momento di disattenzione fuggono dalla comunità che le ospita e vivono alcune giornate di intensa complicità. Strepitosa e con un personaggio irresistibile, che le calza a pennello, Valeria Bruni Tedeschi, brava ma con un personaggio più stereotipato Micaela Ramazzotti. Lo “on the road” delle due protagoniste offre momenti di grande divertimento, in cui si ride di gusto, ma riesce anche a scavare nel loro disagio trovando un equilibrio e una misura davvero efficaci. Forse ci sono troppe spiegazioni e coincidenze, ma è un film di grande vitalità, fatto col cuore, e come tale va preso.   

 

 

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