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Categoria: Antropologia e demografia
Creato Sabato, 01 Settembre 2012

Perchè sbadigliamo?, di Luciano Nicolini (n°149)

L’idea che è alla base di questo articolo mi venne quindici anni fa. Stavo trascorrendo le vacanze in una località balneare del Mezzogiorno d’Italia e, potendo disporre di una terrazza sul mare, decisi di invitare a cena una coppia di amici che risiedevano in una città situata a circa cinquanta chilometri di distanza. Cenammo e chiacchierammo abbondantemente. A un certo punto notai che i miei educatissimi ospiti che, a differenza di me, si erano alzati presto per lavorare, silenziosamente e coprendosi la bocca, cominciavano a sbadigliare. Dopo circa mezz’ora la coppia ripartì in automobile per tornare alla propria residenza.

Nei giorni successivi venni a sapere che, durante il viaggio di ritorno, la mia ospite si era assopita e il marito, alla guida della macchina, aveva avuto un colpo di sonno: per puro caso si era risvegliato in tempo ed era riuscito a mantenere l’automobile in strada. Se fosse stato un po’ meno educato – pensai – avrebbe sbadigliato sonoramente svegliando la moglie e questa, rendendosi conto del grave pericolo, lo avrebbe aiutato a non addormentarsi…

Data la mia formazione di antropologo, mi venne spontaneo generalizzare l’ipotesi: forse è proprio per questo motivo che, quando siamo stanchi, sbadigliamo. Forse, i nostri antenati, che probabilmente vivevano in bande, avevano delle sentinelle che, quando stavano per addormentarsi, sbadigliavano sonoramente avvertendo in questo modo del loro stato di deconcentrazione chi dormiva accanto a loro. Se così fosse, si spiegherebbe anche il singolare fenomeno della contagiosità dello sbadiglio, che renderebbe ancora più efficace, moltiplicandolo, il segnale d’allarme!

Terminata la vacanza, tentai di approfondire seriamente la questione. Subito mi resi conto che la bibliografia circa l’origine e la funzione dello sbadiglio era sterminata. Numerosi autori sostenevano che la sua funzione fosse quella di ossigenare il cervello (Trautmann 1901, sulle orme di quanto affermato da Ippocrate nel IV secolo a. C.), altri di indurne il risveglio (Baenninger 1997), altri ancora di raffreddarlo (teoria recentemente ripresa e sviluppata da Gallup e Gallup 2008); in pochi, tra essi Charles Darwin (1872), ne prendevano in considerazione la funzione comunicativa. Inoltre, nella maggior parte dei lavori, lo sbadiglio era considerato un comportamento comune a tutti i mammiferi, se non a tutti i vertebrati, incluse specie per le quali una spiegazione in termini di segnale d’allarme appariva insostenibile.

Recentemente ho avuto modo di leggere un illuminante articolo di Adrian G. Guggisberg, Johannes Mathis, Armin Schnider e Christian W. Hess (2010) apparso su “Neuroscience and Biobehavioral Reviews” che, al termine di un’approfondita disamina delle evidenze sperimentali riguardanti lo sbadiglio, giunge a conclusioni decisamente interessanti.

La prima importante conclusione cui sono giunti gli Autori citati, dopo aver definito lo sbadiglio come un’involontaria sequenza consistente nell’apertura della bocca, in una profonda inspirazione, una breve apnea e una lenta espirazione, è che l’omologia dello sbadiglio tra specie differenti è controversa. E se controversa è la comune origine filetica di tale comportamento, ancor più controversa ne è l’analogia di funzione. Ciò rende possibile discutere del suo significato evolutivo per la nostra specie senza dover necessariamente estendere la spiegazione ipotizzata a tutte le specie per le quali si è parlato (non sempre a proposito) di sbadiglio.

In secondo luogo, essi dimostrano che l’ipotesi respiratoria, secondo la quale lo sbadiglio avrebbe la funzione di far affluire una maggior quantità di ossigeno al cervello, non è supportata da dati sperimentali. Al contrario, ricerche effettuate da Provine, Tate, e Geldmacher (1987) hanno evidenziato che soggetti sani esposti a miscele di gas con alti livelli di anidride carbonica non sbadigliano con maggior frequenza, e che lo stesso accade in tali soggetti durante l’esercizio fisico prolungato.

Lo sbadiglio, affermano, si verifica prevalentemente durante periodi di sonnolenza, come è previsto dalla teoria secondo la quale favorirebbe il risveglio di chi sta sbadigliando ma, nonostante numerosi studi abbiano analizzato le variazioni dell’elettroencefalogramma negli uomini dopo gli sbadigli per testare l’ipotesi che abbiano come effetto il risveglio, i risultati hanno dato esito negativo. In altre parole: coerentemente con quanto da me a suo tempo ipotizzato, si sbadiglia quando si è deconcentrati o còlti da sonnolenza, ma non sembra essere lo sbadiglio in sè a mantenere sveglio chi sta sbadigliando.

Anche per l’ipotesi di un effetto termoregolatore dello sbadiglio, secondo Guggisberg e collaboratori, non esiste al momento sufficiente evidenza sperimentale. I suoi sostenitori, sostanzialmente, ipotizzano che lo sbadiglio provochi, per mezzo della ventilazione, un raffreddamento del cervello, cosa fino ad ora non dimostrata. Risulta, al contrario, che lo sbadiglio interrompa la normale respirazione nasale, la quale sembra essere forma di ventilazione assai più efficiente rispetto a quella da loro proposta.

Fenomeno ancora più interessante è che nei bambini nessuno sbadiglio contagioso può essere indotto prima dell’età di cinque anni (Anderson e Meno 2003), ossia in un periodo della vita nel quale è difficile pensare che all’individuo possano essere affidate dal gruppo funzioni di sentinella.

Dopo aver sostanzialmente escluso ogni funzione fisiologica dello sbadiglio, a Guggisberg, Mathis, Schnider ed Hess non resta che ipotizzarne una funzione comunicativa.

Secondo tale ipotesi lo sbadiglio sarebbe “una forma di comunicazione non verbale che sincronizza il comportamento di un gruppo (Barbizet 1958, Provine 1986, Weller 1988, Deputte 1994)”, e ciò spiegherebbe, tra l’altro, il suo effetto contagioso. La suscettibilità ad essere contagiati dallo sbadiglio, inoltre, negli individui sani, sarebbe in relazione con la capacità empatica (Platek e altri 2003), con la capacità cioè di partecipare in modo intenso e immediato alla situazione emozionale di un’altra persona. Sarebbe invece ridotta nei pazienti che hanno problemi riguardanti l’interazione sociale come l’autismo (Senju e altri 2007) e la schizofrenia (Lehmann 1979; Haker e Rössler 2009).

Queste, ed ulteriori meno importanti osservazioni riguardanti i primati non umani, portano Guggisberg, Mathis, Schnider ed Hess ad affermare che l’ipotesi comunicativa è quella che ha la migliore evidenza sperimentale tra tutte le ipotesi formulate circa la funzione dello sbadiglio e che, a loro parere, è l’unico modello in grado di spiegare gli effetti sociali dello sbadiglio quali la contagiosità e i differenti stati fisiologici e contesti sociali che possono indurlo. Anche se, prudentemente, non si avventurano in una definizione più precisa di che cosa, attraverso lo sbadiglio, venga comunicato agli altri componenti del gruppo.

Concludendo, l’origine e il significato evolutivo dello sbadiglio umano sono probabilmente destinati a rimanere ignoti: i comportamenti, differentemente dagli organismi, non lasciano fossili. Sembra tuttavia probabile che la principale funzione dello sbadiglio negli ominini protoumani fosse quella comunicativa.

L’ipotesi che, attraverso lo sbadiglio, comunicassero agli altri componenti del gruppo il loro stato di sonnolenza, o di deconcentrazione, è coerente con quanto fino ad ora osservato e, se fosse valida, la capacità di sbadigliare potrebbe aver costituito un importante vantaggio evolutivo in situazioni nelle quali accadeva spesso di essere predati.

Il fatto che tale spiegazione del fenomeno non sia stata fino ad ora proposta in modo chiaro ed esplicito dagli autori che si sono occupati dell’argomento potrebbe essere ricondotto, oltre che ad una più che comprensibile prudenza, alla scarsa attenzione dedicata alla sonorità dello sbadiglio, evitata nell’uomo contemporaneo per via dei condizionamenti culturali, ma probabilmente associata ad esso nei nostri antenati.


Bibliografia

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Baenninger R. 1997, On yawning and its functions, Psychonomic Bulletin and Review, 4: 198–207.

Barbizet J. 1958, Yawning, Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry, 21: 203–209.

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Deputte B. L. 1994, Ethological study of yawning in primates. 1. Quantitative analysis and study of causation in two species of old world monkeys (Cercocebus albigena and Macaca fascicularis), Ethology, 98: 221–245.

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Guggisberg A.G., Mathis J., Schnider A. e Hess C. W. 2010, Why do we yawn?, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 34: 1267–1276.

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Provine R. R. 1986, Yawning as a stereotyped action pattern and releasing stimulus, Ethology, 72: 109–122.

Provine R. R., Tate B.C. e Geldmacher L.L. 1987, Yawning: no effect of 3–5% CO2, 100% O2, and exercise, Behavioral and Neural Biology, 48: 382–393.

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